Venezia

Uscimmo dalla stazione. Il Canal Grande era una strada d'acqua affollata, rumore di motori, grida di bambini, turisti ovunque e camicie colorate, odore di gasolio e mare morto. La chiesa di San Simeone interrompeva la processione dei palazzi, il colonnato e la cupola verde si stagliavano nel cielo. La statua sulla sommità sembrò salutarci. Rimasi incantato da un'architettura così invadente e attraversata dal mare. Non ero mai stato a Venezia prima di allora, ebbi l'impressione di trovarmi davanti a una vecchia signora imbellettata, nostalgica e memore di sfarzi passati, costretta a concedersi ai visitatori per poche monete. Ci incamminammo verso il Ponte degli Scalzi, svicolando tra corpi sudati e seguendo il percorso abituale, quello dei visitatori della domenica, dei giapponesi sorridenti che fotografano ogni cosa. Poi deviammo in uno stretto vicolo e uscimmo dal fiume di persone, lasciandolo alle nostre spalle. Entrammo nella Venezia meno vista, quella soffocata tra le mura dei palazzi, quella stretta nei vicoli umidi come cicatrici sulla pelle. In silenzio, con il timore che anche una sola parola avrebbe rovinato l'incanto. Il mio braccio sfiorò il suo, era una timida danza di corteggiamento, il riavvicinarsi di due metà tenute lontane per troppo tempo. Venezia aveva grandi occhi. Le calli, i campielli, piccoli tesori incastonati tra mura di mattoni a vista. Case colorate, i vasi di fiori alle finestre. Il silenzio e l'odore del mare.

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Arrivai a Venezia. La stazione il solito nido di vespe colorate, ognuna con la propria valigia e un pezzo di esistenza tra le mani. E io facevo lo stesso, portavo con me un cambio di vestiti, lo spazzolino da denti e la mia anima nuda. Un bagaglio leggero e trasparente, pronto per essere consegnato nelle mani di Claudia come un pacco vuoto. Camminai tra le calli, l'odore di salsedine nel naso. Lasciai impronte sui selciati bianchi e trafitti dal sole, mentre migliaia di turisti scattavano foto ai piccioni. La mia era una fuga felice e mi percorse il pensiero che sarebbe stato bello vivere come un evaso. Fuggire senza motivo, dormire vestito e vivere per ciò che ero, non per i ruoli che qualcuno mi aveva appiccicato alla pelle. Vivere senza ragionare, puro e incolpevole come gli angeli. La vidi da lontano, anche lei immersa nella stessa folla. Calle dei Fabbri brulicava come un formicaio, quasi ci scontrammo, sorrise e aprì le braccia. Mi raccolse come un tappo di sughero portato dalla corrente di un fiume, chiuse le mani a coppa e mi sostenne. Per me fu ritrovare ciò che avevo perduto. La metà che era rimasta dentro gli occhi di Claudia si ricongiunse alla parte che mancava. Ci abbracciammo e appoggiò le labbra alle mie.

© 2017 Guido Mazzolini  --- "Scrivo perché ho una pessima memoria."
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