Cremona
Durante le vacanze estive Cremona diventava un forno acceso, la pianura padana una brace che cuoceva i pensieri. In alcune ore del giorno era impossibile uscire, aria torrida sul viso, afa liquida nei polmoni, automobili che affondavano nell'asfalto bollente. Solo verso sera la temperatura diventava sopportabile e la calura meno opprimente. La gente riempiva le strade, processioni verso il centro e serate tranquille, disturbate solo dalle zanzare che sciamavano in ogni direzione. Un passo e uno schiaffo sul braccio, un passo e uno schiaffo sulla guancia. Terminò un altro anno scolastico, senza infamia e senza gloria. Restammo in città a respirare solitudine. Tutto cambiava rapidamente. Il mio corpo si modificava ogni istante, era un sortilegio malefico che accadeva nelle viscere e bucava la pelle. Mi allungai come un elastico, teso verso il soffitto. Una parte dei miei pensieri voleva perforare il cielo, un'altra scavava abissi nelle terra più profonda. Il bisogno di autonomia diventò una necessità, un pensiero fisso che ammiravo e temevo allo stesso tempo. Nelle ore meno calde del pomeriggio prendevo la bicicletta e percorrevo tragitti interminabili. Scoprivo strade della città mai viste prima, Cremona mostrava la faccia più nascosta, vecchi palazzi con le lenzuola stese e i motori dei condizionatori appesi alla finestra. Gente sconosciuta, vecchi col cappello e signore con le borse della spesa. Fantasmi appannati, prigionieri in una città deserta. Rientravo dalla periferia e mi perdevo nel dedalo del centro. La torre della Cattedrale svettava come un'astronave pronta al decollo, era il mio punto di riferimento, la cercavo per trovare la strada e ritornare a casa.
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Restammo in pochi, superstiti di un tempo passato. Ricominciai a vivere di tedio, trascorrendo le giornate come una lumaca nel guscio. Inventai una dimensione più consona al mio stato d'animo, evitavo di prendere sonno, mi alzavo dal letto e camminavo. Nel silenzio guardavo gli altri dormire, mi piaceva ascoltarne i respiri, mia madre che borbottava nel sonno, il russare profondo di mio padre. I corpi sedati dal calore della notte mi davano una dolce impressione di quiete, immaginavo di entrare nei loro sogni e diventarne un pensiero velato. Uscivo di nascosto, senza fare rumore. Cremona era un animale addormentato, le strade deserte e i negozi chiusi, gli occhi bui delle finestre e i lampioni come candele. Camminavo a lungo, tracciavo peripli senza senso fino a scorgere la prima luce dell'alba. I miei passi risuonavano sul selciato di Piazza Stradivari, amavo quella parte di città, il rosso dei mattoni e il chiarore spettrale del Duomo. Era un medioevo surreale e sfacciato che solleticava la fantasia e accendeva gli occhi.